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L’adorazione dei Re Magi o come la magia si fa sacra

In questo caso di Art Detective parlerò della figura dei Re Magi e della loro rappresentazione nella pittura.

Nel Museo del Prado  abbiamo differenti esempi e di differenti artisti.

I magi, uomini eruditi dell’epoca della nascita di Gesù, sono rappresentati in pittura in maniera tradizionale o volte poco convenzionale.

In questo caso di Art Detective non parlerò solo di alcune delle mie opere favorite del museo, che trattano questo tema, ma cercherò di tracciare un excursus della figura del Magio.

Magio è una parola che proviene dal persiano, con accezione di astrologo. I magi (o maghi), nella tradizione persiana, erano uomini che conoscevano e studiavano le stelle, uomini saggi, scienziati ed eruditi. La figura del magio arriverà a noi attraverso la parola in latino magus.

I Magi appaiono nella tradizione cattolica, nel Vangelo di Matteo.

Si narra:

“Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano:  «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.  Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:

 E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda:
da te uscirà infatti un capo
che pascerà il mio popolo, Israele.

 Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino.  Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia.  Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.

Come si può notare non si citano i Re Magi, né i loro nomi, né che siano tre, né nulla di tutto quanto oggi intendiamo come tradizione dell’Epifania.

E allora perché oggi abbiano una certa idea dei Re Magi e con i nomi di Melchiorre, Gasparre e Baldassarre?

La prima volta che appaiono i loro nomi è nel mosaico della Chiesa sant’Apollinare Nuovo di Ravenna, in Italia, nel secolo VI d.C.

Come possiamo vedere Baldassarre non ha la pelle nera. L’idea dei tre continenti, Asia Africa ed Europa, associata ai Re Magi arriverà nel medioevo. Melchiorre è l’europeo, Gasparre è l’asiatico e Baldassarre è l’africano. In alcune opere abbiamo il Re Magio che rappresenta l’America (evidentemente dopo il 1492). Tutto questo si presenta attraverso caratteristiche che si ripetono nelle opere nel corso dei secoli.

Partendo dall’idea della tradizione cristiano-cattolica, conosciuta attraverso il Vangelo di Matteo, dei Magi, che seguendo la stella, arrivarono a visitare il Bambin Gesù, troviamo degli esempi nei quali questi antichi eruditi non sono tre. Nei Vangeli apocrifi, fonti fondamentali per gli artisti di tutti i tempi, i magi possono essere tre, dieci o anche dodici. Hanno cammelli o cavalli. Portano i doni, quasi sempre oro, incenso e mirra.

Le opere del Museo del Prado di Madrid che scelgono questo tema dei re Magi sono varie.

Per esempio nella predella de “L’Annunciazione” di Frà Angelico si mostra una scena dei Re Magi. “L’Annunciazione” è un’opera del 1425-1428 del frate italiano. Ci mostra il momento dell’annunciazione della nascita del Bambin Gesù, dell’Arcangelo Gabriele alla Madonna.

 

La parte inferiore del quadro, la predella, mostra la vita di Maria dalla sua nascita alla sua morte, in differenti riquadri.

Quello de “L’adorazione dei Re Magi” descrive la figura dei Magi secondo la tradizione dei vangeli apocrifi.

Sono più di tre e non è presente il Baldassarre africano. Si vedono i doni e i vestiti persiani, il cappello fregio o le corone, i cavalli e i cammelli. Ricordiamo che molte volte nelle opere d’arte il contesto temporale è quello del pittore, quindi l’architettura della scena così come i vestiti sono quelli dell’epoca di Frà Angelico, in questo caso. È presente la stella nella parte alta del quadro e gli angeli azzurri, i Cherubini, nella parte alta della capanna. I doni sono tre, si trovano ai piedi della Madonna, di fronte, vicino al Re Magio inginocchiato. È per il numero dei doni, che sono tre, che i Re Magi diventano tre.

Un altro esempio di opera d’arte è quello di Jheronimus Bosch, il pittore olandese che ci offre una versione de “L’Adorazione dei Re Magi” molto originale.

L’opera è datata 1494 e fa parte della collezione del Museo del Prado.

I Magi sono tre, da numero convenzionale della tradizione cattolica, ma hanno qualcosa di diverso. I doni classici di oro, incenso e mirra si accompagnano a delle premonizioni.

Vediamo quali.

È arrivato il momento di definire chi è chi tra i Re Magi e quali sono i doni che corrispondo a ognuno di loro.

Melchiorre è il Re Magio portatore dell’oro. È convenzionalmente rappresentato come un uomo anziano di pelle bianca e barba bianca. Rappresenta l’Europa. L’oro che porta rappresenta la natura regale di Gesù.

Gasparre è il portatore di incenso. È il giovane Magio e rappresenta l’Asia. L’incenso che ha come dono rappresenta la natura divina di Gesù.

Baldassarre è il Magio africano, di pelle nera. È il portatore della mirra, l’unguento con il quale si coprivano i corpi dei morti, rappresenta la sofferenza e la morte di Gesù.

Ne “L’Adorazione” di Bosch i Re Magi offrono i tre doni ma hanno inoltre dei doni che simbolizzano delle premonizioni della Passione e del destino di Gesù.

Il Re Magio Melchiorre, inginocchiato, in primo piano, porta con sé, non solo l’oro ma anche una scultura intagliata in legno che rappresenta Abramo e il sacrificio di suo figlio Isacco.

È questo un chiaro riferimento al futuro sacrificio di Gesù destinato a morire sulla croce.

Il Re Magio Gasparre in piedi, nel centro della scena, ha un piatto di incenso in mano, ma il suo mantellino fa intravedere dei dettagli che rivelano una scena: la visita della Regina di Saba al Re Salomone, premonizione della visita dei re Magi al Bambin Gesù.

 

In ultimo il Re Magio Baldassarre, a sinistra, ha in mano un ampolla con la mirra sopra la quale vediamo un uccello: una Fenice. La Fenice è un animale che risorge dalle proprie ceneri, suggerisce quindi la premonizione della Risurrezione di Gesù.

In questo viaggio pittorico dei Re Magi non poteva mancare un’opera di Rubens.

Rubens che è stato tra i pittori più citati nei miei articoli insieme a Tiziano, ed è di fatti protagonista dell’opera “L’adorazione dei Re Magi” datata1609-1629.

L’opera, come le altre,  si concentra sulla scena dell’arrivo dei Re Magi, in visita al Bambin Gesù.

È spettacolare, imponente, lussuosa, ricca di dettagli e di personaggi tra i quali spicca lo stesso Rubens che si autoritrae nella scena.

La pittura fu realizzata ad Anversa per incarico del comune nel1608-1609.

Di questa prima versione si conservano un bozzetto, del Groninger Museum in Olanda  e una copia che si trova in una collezione privata a Londra.

Eccole:


Il quadro di Rubens arriva in Spagna nel 1613 con Rodrigo Calderón, politico e diplomatico spagnolo, vincolato alla città di Anversa e alla corte del Re Filippo III d’Asburgo, ma soprattutto al suo segretario, il duca di Lerma.

Quando il duca di Lerma fu destituito dal suo incarico lo stesso successe a Calderón.

Il quadro di Rubens da Anversa si trasferisce a Madrid e nel 1613 farà parte della collezione delle opere dell’Alcázar di Madrid ai tempi di Filippo IV d’Asburgo, re di Spagna.

Nel 1629, durante il suo secondo viaggio a Madrid, Rubens si ritroverà di fronte alla sua opera. Decide di modificarla ed ampliarla nella versione definitiva che conserviamo nel Museo del Prado.

La composizione è magnifica e imponente. Presenta i tre Re Magi che offrono i doni al Bambin Gesù. Il lusso della scena sembra ricordare il lusso e la varietà commerciale della città di Rubens, Anversa.

Sul lato sinistro osserviamo la Madonna, San Giuseppe e il Bambin Gesù, che è il punto focale di luce di tutta la scena. La composizione è effettivamente molto luminosa nonostante sia di notte, così come suggerisce il cielo scuro dello sfondo. Tutta la parte alta e quella a destra sono le aggiunte del 1629.

È affascinante l’entusiasmo del pittore che trovandosi di fronte alla sua opera dopo vent’anni dalla sua realizzazione voglia modificarla. Allo stesso modo è incredibile la disponibilità del re Filippo IV di Spagna che permette tale proposito.

Il dinamismo della scena così come la grandiosità dell’opera ci invadono da destra a sinistra. Tutto confluisce nella figura del bambino, persone e animali. Rubens è l’uomo, a destra, di spalle, guardando di lato, vestito di velluto viola con una spada dorata. Gli uomini nudi, degli schiavi probabilmente, che caricano le casseforti dei doni hanno uno stile molto italiano, imitando Michelangelo (nell’autonomia dei corpi) e Caravaggio (i talloni sporchi e feriti), chiara eredità degli anni che Rubens ha passato in Italia.

La disposizione dei personaggi segue il bozzetto iniziale da San Giuseppe fino agli schiavi. La nuova versione aggiunge i cavalli, i cammelli, gli angeli nella parte superiore e, come ho già detto, la figura dello stesso pittore.

Un’altra “Adorazione dei Re Magi” che voglio raccontare è quella di Juan Bautista Maíno.

L’opera è datata 1612-1614. Fu un incarico che il pittore ricevette per l’Altare maggiore della Chiesa conventuale di San Pietro Martire a Toledo.

Maíno è un’artista quasi sconosciuto e poco studiato. Si nota il suo stile italiano pieno di caravaggismo, degli anni italiani. Le figure monumentali, i dettagli nei ritratti e la gamma cromatica utilizzate attribuiscono al pittore un grande ammirazione per il suo talento, dei suoi contemporanei e del re Filippo IV, del quale era inoltre maestro di pittura.

In questa “Adorazione” osserviamo una composizione piramidale, sviluppata quindi in verticale. La parte architettonica è classica, di stile romano, si intravede di fatto un rudere identificato come il Colosseo. Tra i Magi appare una figura che segnala il Bambin Gesù (o Baldassarre e gli stessi Re Magi) che è riconosciuto come autoritratto del pittore. Il cappello che porta così come il suo viso ricordano “La conversione di San Matteo” di Caravaggio. La luce giallastra, l’atmosfera e l’ambiente conferiscono alla scena realismo e intimità. Il tratto dei volti e tutti i particolari dei vestiti sono stupendi. Il sorriso del Re Magio Baldassarre, molto poco visto nella tradizione, ci cattura e ci intenerisce allo stesso tempo. Baldassarre sorregge il suo dono tra le mani, una conchiglia meravigliosa di madreperla, impreziosita da decorazioni dorate. Il Re Magio Gasparre guarda direttamente il bambino e gli afferra il lenzuolino azzurro blu, nel quale è avvolto. Melchiorre l’osserva e contempla con reverenza, basti guardare il gesto della sua mano destra.

Sono particolarmente affezionata a quest’opera che è l’ispirazione di Polinho Trapalleiro, Pablo Gª Conde-Corbal, l’artista galiziano che ha avuto l’incarico di realizzare il manifesto del Natale di Madrid di quest’anno.

Trapalleiro è un architetto de la Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Madrid (UPM), galiziano di origine e di adozione madrilena. Non è la prima volta che vediamo le sue opere a far da cornice alle feste madrilene. Si è già incaricato di numerosi manifesti, con il suo stile inconfondibile, sognante e magico.

Madrid, Puerta de la Navidad”, non è semplicemente la copertina del Natale 2024-2025 ma è un vero e proprio omaggio alla città.

La Porta di Alcalá, grande emblema della città di Madrid, è la Porta del Natale, dalla quale nascono i molteplici personaggi che compongono il grande ventaglio culturale ed iconografico di Madrid. “L’Adorazione” di Maíno occupa lo spazio centrale. La scena principale è circondata dai chulapos e chulapas madrileni (gli abitanti tradizionali della città), lo scrittore Pérez Galdós, lo scrittore Valle Inclán, la scrittrice Gloria Fuertes, la giovane Manuela Malasaña, figure di spicco della storia e della letteratura di Madrid.

Non poteva mancare il Re Carlo III di Borbone, il grande re di Madrid, al quale dobbiamo la costruzione della Porta di Alcalá e di tutto quello che oggi è Il Paesaggio della Luce, Patrimonio Unesco della città. Tutti i personaggi hanno una lucina in mano, che li unisce gli uni agli altri, in un filo invisibile di amore, di festa e di allegria.

E che dire della bambina della lotteria nazionale, a sinistra, che illumina con la sua lucetta tutta la città?

In primo piano i tre gatti che custodiscono le origini della città di Madrid.

Ma questa è un’altra storia!

Buon 2025 da Art Detective!

 

 

 

 

 

 

 

La dea Diana o come la sua crudeltà non ha occhi neanche per l’amore

Nel precedente caso di Art Detective abbiamo parlato del destino di Andromeda, di Perseo e di Medusa. La storia di Perseo e di Andromeda risulta essere una storia d’amore con il lieto fine ma quello di Medusa no.

Abbiamo visto che nella tradizione mitologica è molto difficile trovare un destino felice. Ne troviamo molto spesso invece di crudeli e violenti.

Nel caso di oggi abbiamo come protagonista la dea Diana che non si salva dal carattere senza pietà tipico dei miti latini.

La dea Diana è la dea romana associata alla caccia e alla natura, Artemide nella tradizione greca. Normalmente è rappresentata come una giovine cacciatrice con arco e frecce, accompagnata da animali da caccia come cervi o cani.

Secondo la leggenda Diana è nata dall’unione di Giove (Zeus nella mitologia greca) e Latona (Leto nella mitologia greca).

La storia racconta che Latona rimase incinta dei gemelli Diana e Apollo. Tuttavia Giunone (Era nella mitologia greca), la sposa di Giove, gelosa e iraconda per la situazione, per evitare che Latona trovi un luogo dove partorire proibì a tutta la terra di darle rifugio. Latona vaga per tutta la terra, cercando invano un luogo sicuro per partorire i suoi figli, ma tutti i luoghi la rifiutarono per via della maledizione di Giunone. Alla fine arrivò l’isola di Delo e fu lì dove poté partorire Diana e Apollo. Come ringraziamento per averle dato rifugio Diana adottò Delo come il suo luogo sacro. In alcune versioni del mito Diana nacque prima per aiutare sua madre a partorire suo fratello Apollo. Sarà per questo che è anche considerata la protettrice dei parti.

Viene conosciuta anche per essere la protettrice degli animali selvaggi e per guidare i cacciatori.

Nel vasto universo di storie, miti e aneddoti rispetto alla dea Diana, in questo caso di Art Detective mi soffermerò sull’ affascinante storia tra Diana e Calisto.

Nell’opera Le Metamorfosi di Ovidio, Calisto è la pupilla, la preferita della dea, una fanciulla di eccezionale bellezza tra le ninfe che fanno parte del seguito della cacciatrice. La trama si complica quando Calisto viene sedotta da Giove che la segue in un fitto bosco dove nessuno aveva mai osato entrare. Giove, travestito da Diana, svelerà la sua vera identità solo durante l’atto, lasciando così Calisto indifesa, ma, nonostante i tentativi di quest’ultima di resistere, nessuna forza mortale può opporsi alla volontà del dio. Come conseguenza Calisto rimase incinta. Questa impurezza Diana, la dea vergine per eccellenza, che esige castità alle sue ninfe, non la tollererà. Scoprendo che Calisto è incinta Diana le impone un castigo esemplare: la trasforma in orsa, destinata ad essere cacciata dal suo stesso figlio Arcadio.

La narrativa ci porta ai tormenti che Calisto dovrà vivere nei giorni successivi, temendo di essere cacciata, accompagnata costantemente dai latrati dei cani che la perseguitano, vaga per i campi evitando addirittura di riposare per non essere uccisa.

Il suo tristo destino sembra essere ormai imminente, ma Giove decide di intervenire. Trasformerà Calisto e Arcadio nelle costellazioni dell’Orsa maggiore e l’Orsa minore, unite così per sempre nel firmamento celeste.

La straordinaria storia di Calisto e Diana viene rappresentata dal maestro Tiziano nell’opera di Diana e Calisto che forma parte della serie delle Poesie incaricate da Filippo II di Spagna. Se volete sapere di più sulle Poesie potete cliccare qui.

L’opera viene dipinta a Venezia tra il 1556 e il 1559. Il quadro offre una rappresentazione unica del destino tragico della fanciulla.

In questa opera ammiriamo l’imponente figura della dea Diana, a destra, seduta con solennità come se stesse su un trono.

Si trova circondata dal suo séguito accompagnata dagli attributi suoi caratteristici: arco, frecce e cani da caccia. Diana si erge nella scena come fosse un imperatore romano impartendo il castigo imperturbabile, sorda alle ragioni di Calisto. La sua gelosia e la sua austerità la conducono ad agire con crudeltà e senza pietà.

A sinistra del quadro, nella scena, Calisto giace sforzandosi al massimo per evitare di essere scoperta, ma le ninfe ne svelano il segreto incuranti delle conseguenze.

Ci si presenta così una scena tragica permeata di un dramma scenico intenso e vibrante.

Nel 1628, nel suo secondo viaggio a Madrid, Rubens inizia il suo monumentale lavoro di copiatura delle opere del grande maestro Tiziano. Ne abbiamo già parlato in diversi casi di Art Detective. Non potevo non menzionare la sua versione di Diana e Calisto.

Questa interpretazione che data 1635 fu creata specificamente per la Torre della Parada, il padiglione di caccia del Re Filippo IV di Spagna.

L’interpretazione di Rubens è differente rispetto a quella di Tiziano.

Le figure occupano degli spazi speculari, Diana a sinistra e Calisto a destra.

La compassione e la sorpresa di Diana di fronte all’essere incinta della sua protetta sono evidenti, mentre Calisto è addolorata e imbarazzata, cerca di occultare con un vestito il suo segreto per non essere scoperta da Diana. È quasi come se il suo funesto destino potesse evitarsi. Rubens ci rappresenta una Diana compassionevole e amorevole.

Un dato curioso: la Calisto di Ruben riflette per il tipo di pettinatura e per i tratti somatici la sua seconda moglie, Hellen. Non c’è da sorprendersi poiché negli ultimi 10 anni Rubens la terrà come sua musa in diverse occasioni.

Il quadro di Rubens si trova nel Museo del Prado di Madrid, mentre l’opera di Tiziano è conservata nella National Gallery di Londra.

Come è da immaginare ho documentato tutta l’odissea del quadro di Tiziano.

Iniziamo.

Come ho già detto anteriormente le Poesie di Tiziano si trovavano insieme in Spagna fino al 1704. Diana e Calisto fu offerta all’ambasciatore francese da Filippo V di Spagna, il primo re della famiglia di Borbone nel trono di Spagna. Successivamente fu acquisita dal reggente di Francia Filippo d’Orleans,  che formò una notevole collezione di pittura.

Durante la Rivoluzione francese la collezione fu venduta e comprata dal terzo duca Bridgewater nel 1793. La collezione rimase a Bridgewater House a Westminster e poi fu trasferita in Scozia nel 1939, a causa della Seconda Guerra Mondiale. Dal 1945 è stata esposta nella National Gallery of Scotland di Edimburgo. Nel 2008 il settimo duca Sutherland espresse l’intenzione di vendere parte della sua collezione, generando così un dibattito pubblico. L’opera fu comprata per 45 milioni di libre contemporaneamente dalla National Gallery di Londra e dalla National Gallery of Scotland di Edimburgo. Dal marzo del 2012, difatti esiste un accordo tra i due musei che si alternano nell’esposizione del quadro.

Tra le Poesie di Tiziano troviamo anche Diana e Atteone che si conserva nella National Gallery di Londra.

La composizione ha molte similitudini con la Diana e Calisto.

Diana si trova a destra, anche in questo caso. Si identifica come la dea Diana grazie alla mezza luna che porta sulla testa. In questo caso è la dea che si nasconde e cerca rifugio dallo sguardo indiscreto di Atteone, un cacciatore che è capitato accidentalmente nello stesso luogo in cui Diana le sue ninfe stanno per fare il bagno. Nel riconoscere la dea, Atteone si ferma per rimirarla, attratto dalla meravigliosa bellezza della dea. Le ninfe cercano di proteggere la loro signora, coprendola dallo sguardo furtivo del cacciatore. Atteone viene castigato, senza clemenza da parte della dea, e trasformato in cervo per essere poi, attaccato e divorato dai suoi stessi cani. Un destino atroce e altresì crudele come quello di Calisto

Diana si presenta come una figura dura e intransigente anche in questa opera.

Il dipinto è esposto nella National Gallery di Londra e occupa la parete attigua a Diana e Calisto.

Nella stessa sala, nella parete di fronte, si trova un’altra grande opera di Tiziano, La morte di Atteone, che rappresenta il destino di Atteone e la sua metamorfosi in cervo. Entrambi i quadri stabiliscono così un dialogo e un discorso narrativo, discorsivo e coerente che arricchisce così l’esperienza dello spettatore.

Ci troviamo di fronte al destino di Atteone già trasformato in cervo; i suoi cani lo stanno perseguitando e divorano le sue carni. In primo piano la dea Diana con il suo arco è pronta a partecipare della caccia e castigare definitivamente l’ardire di Atteone.

È possibile che questo quadro facesse parte delle Poesie poiché Tiziano, in una lettera al re Filippo del 1559, fa riferimento al Ratto di Europa (che abbiamo già visto in un altro caso di Art Detective) e a La morte di Atteone. Tuttavia questo quadro non arriverà in Spagna. Si trovava nel laboratorio di Tiziano, a Venezia, dopo la sua morte.

La dea Diana non è l’unica che infligge castighi e rispetto a questo vorrei raccontarvi la storia delle Furie.

Ma questo è un altro caso di Art Detective.

Andromeda o come l’ amore rompe frontiere

Nei precedenti casi di Art Detective abbiamo parlato di tragedie d’amore ma abbiamo lasciato
una speranza per gli articoli a venire.
Nel miti greci, e poi quelli romani, la maggior parte delle volte assistiamo a delle scene di violente vendette o, quasi sempre, le storie non hanno un happy ending, ma al contrario, finiscono in brutali, radicali e a volte spaventose metamorfosi, morti e castighi.

Gli dèi in genere si infuriano tra di loro o contro i mortali che non rispettano le loro leggi e i loro limiti, dando così inizio a innumerevoli miti.
Nel caso di oggi di Art detective racconterò una storia diversa, che vede differenti personaggi che intrecciano i loro destini.

Parlerò della giovane Andromeda e delle avventure di Perseo.
Il mito di Andromeda è una storia affascinante della mitologia greca che include eroi, mostri e riscatti eroici.

Iniziamo:

Andromeda era una principessa etiope, figlia dei re Cefeo e Cassiopea, la sua storia racconta come, a causa dell’arroganza di sua madre, lei finirà intrappolata in quello che sembrerebbe un destino e una penitenza senza uscita.
Cassiopea presumeva la sua bellezza, confrontandola con quella delle Nereidi, le ninfe marine, facenfole infuriare. Come castigo il dio del mare Poseidone inviò un mostro marino chiamato Ceto per terrorizzare il regno d’Etiopia.
Per placare l’ira di Poseidone e salvare il suo regno, Cefeo e Cassiopea consultarono un oracolo che gli consigliò di sacrificare Andromeda e offrirla al mostro marino; così Andromeda fu incatenata a una roccia, penzoloni sulla costa, aspettando di essere divorata da Ceto.
Ma è qui che entra in scena l’eroe Perseo.
Precedentemente, Perseo aveva sconfitto la Gorgona Medusa, con l’aiuto di Ermes e Atena (una storia che racconterò in dettaglio più avanti nell’articolo).
Ermes o Mercurio è il figlio messaggero di Zeus, il dio dall’elmo e dai sandali alati che si muove in ogni parte e rappresenta in maniera simbolica la comunicazione e il commercio.
Atena o Minerva d’altro canto è la dea della giustizia e della saggezza che è stata già protagonista di un caso di Art Detective. Ve lo ricordate? È la dea che arde di invidia e la scarica su Aracne, una giovane che osa sfidare la dea nell’arte di tessere. Se volete rileggere la storia fate clic qui.

Ma torniamo al mito di Perseo e Andromeda.
Quando questi vede Andromeda in pericolo, sulla roccia, si innamora di lei e decide di salvarla. L’eroe affronta Ceto e usando la testa di Medusa, i cui occhi trasformano in pietra tutto ciò che osa mirarla. Pietrifica il mostro, lo uccide e libera la bella giovane.
La storia è stata rappresentata in numerose opere d’arte durante la storia e ha ispirato diverse adattazioni letterarie, teatrali e cinematografiche.
Questo momento epico della liberazione di Andromeda è contemplato in una pittura del maestro Tiziano.
Già sapete che Tiziano è il mio riferimento artistico da cui parte ogni caso.

Il quadro di Tiziano è datato 1554-1556. Attualmente si trova nella collezione Wallace di Londra, essendo parte integrante delle Poesie , l’insieme di quadri incaricate al pittore veneziano da Filippo II di Spagna.
Nel quadro apprezziamo le azioni eroiche di Perseo che con una specie di contorsione fisica uccide il mostro Ceto per liberare Andromeda. Ella si trova in primo piano. Tramette sensualità e innocenza. Ci lascia attoniti e speranzosi che Perseo la salvi da morte sicura e tragica, così come succederà.
Tiziano la mostra in primo piano, a sinistra, con la pelle candida, incatenata ma con una posizione danzerina che mette in evidenza la sua bellezza e la sua armonia.
Alla fine Perseo si sposerà con Andromeda e la porterà con sé nella sua terra natia dove diventeranno dei re. Le nozze saranno un grande evento.

Ma questo quadro che Tiziano realizzò per il re spagnolo come arrivò a Londra?
Sebbene non ci siano prove certe di come arrivò esattamente alla collezione Wallace, la pittura iniziò la sua storia a partire dal vincolo e dal rapporto con il re Filippo II di Spagna e Tiziano, che iniziò questo grande incarico delle Poesie per il re.
Paradossalmente in Spagna, solo rimangono due delle Poesie di Tiziano che in totale erano 5. Entrambe si conservano nel Museo del Prado di Madrid.
Abbiamo parlato di entrambe: Danae che riceve la pioggia d’oro e Venere e
Adone.
Le tracce dei quadri sono la mia specialità come detective dell’arte quindi seguiamole.
Dopo essere stato dipinto da Tiziano, il quadro originale viene inviato a Gand, in Belgio, e poi se ne perdono le tracce prima della morte del re Filippo II nel 1598. È importante menzionare che Antonio Perez il segretario del re possedeva nella sua collezione una copia ma non l’originale del quadro. La copia di Perez oggi si trova nel Museo del Prado di Madrid.
Andromeda e il dragone realizzato da un anonimo è datato 1580-1600.

Tornando all’originale, il quadro dipinto da Tiziano per il re, appare posteriormente nella collezione della famiglia degli scultori Leoni, in Italia, e fino al 1608 consta nel registro dell’inventario di questa famiglia italiana.
Posteriormente tra il 1621 e il 1627 formerà parte della collezione del pittore Van Dyck che l’avrebbe comprato dalla famiglia Leoni durante la sua permanenza in Italia. Van Dyck lo portò con sé ad Anversa. Nel 1641, data della morte del pittore, si trovava nella sua lista di beni, a Londra.
Dopo essere stato venduto a un proprietario inglese, appare in Francia intorno al 1654 e lì è rimasto fino al XVIII secolo. Formò parte della collezione d’Orléans fino ad arrivare a disperdersi dopo la Rivoluzione francese per apparire un’altra volta a Londra dove si trova attualmente.
Che odissea!

Adesso invece parliamo di una versione del quadro realizzata dal pittore veneziano Veronese.

L’opera di Veronese data 1575-1580 e mostra lo stesso modello della pittura di Tiziano. La composizione si presenta come uno specchio dell’opera del maestro.
Andromeda si trova sul lato destro (quella di Tiziano sta nella parte sinistra) ma il resto della composizione mette in evidenza, allo stesso modo che Tiziano, l’atto eroico di Perseo che si lancia sul mostro in una piroetta acrobatica così come abbiamo visto nel quadro di Tiziano.

Il quadro di Veronese attualmente si trova nel Musée des Beaux-Arts di Rennes.
La storia di Andromeda sarà raccontata anche dalla mano di Rubens che realizza una versione del quadro che oggi si trova nel Museo del Prado.

La versione di Rubens si realizzò tra il 1639 e il 1641, con la collaborazione del pittore Jacques Jordaens.
Tiziano, così come Veronese, si concentra sulla lotta tra Perseo e il mostro, mentre Rubens mostra una scena più intima tra l’eroe e la donzella. Perseo si avvicina ad Andromeda, la guarda dolcemente prima di liberarla. Sopra di essi si vede la figura di Cupido che rappresenta l’amore tra i due. Ai piedi dei personaggi sul lato sinistro apprezziamo lo scudo di Perseo con la testa di Medusa e a destra possiamo vedere Pegaso, il cavallo alato che cavalcherà Perseo, e in ultimo vediamo anche il mostro marino Ceto.

Detto ciò è arrivato il momento di entrare in dettaglio nella storia di Perseo e di come riuscirà ad avere la testa di Medusa che ucciderà per liberare l’amata Andromeda, protagonista del nostro caso di oggi.

C’è da dire che non è la prima volta che parliamo di lui. È già apparso in un altro caso di Art Detective nell’articolo di Danae.
Perseo è il figlio di Zeus e Danae. Vi ricordate di lei?
Vi rinfresco un po’ la memoria.
La storia di Perseo comincia con il re chiamato Acrisio, il nonno di Perseo. Acrisio era stato avvertito dall’oracolo che suo nipote lo avrebbe ucciso in futuro, per cui decise di rinchiudere sua figlia Danae per evitare che avesse dei figli. Tuttavia Zeus si innamora di Danae e la seduce trasformandosi in pioggia dorata che cadrà sul suo corpo. Dalla pioggia d’oro nascerà Perseo.
Adesso ricordate la storia? Altrimenti potete rileggerla qui.
Quando Acrisio scopre l’esistenza di Perseo, temendo che la profezia si avveri decide, di mettere in mare Danae e il bambino. La corrente li trascinerà fino all’isola di Serifo, ove saranno riscattati.
Polidette, il re dell’isola si innamora di Danae e vuole sposarla. Perseo tuttavia si oppone per cui il re, vedendolo come un ostacolo, per disfarsi di Perseo idea un piano: organizza un banchetto e chiede ai suoi invitati che gli portino dei regali. Chiede a Perseo la testa di Medusa, la Gorgona mostruosa il cui sguardo converte le persone in pietra.
Il re sapeva che affrontare Medusa era un’impresa impossibile dovuto alla sua pericolosità così che lo inviò praticamente a una sentenza di morte. Perseo accetta la sfida.
E qui dove la storia diventa più intrigante.
Perseo decide di affrontare la Gorgona Medusa e per questo riceve l’aiuto degli dèi Ermes e Atena che gli propiziano degli strumenti magici con i quali riuscire nell’impresa. Ermes gli consegnò i sandali alati e il casco invisibile di Ade (il dio degli inferi) una spada e uno scudo con uno specchio. Dopo molte avventure e sfide Perseo riesce finalmente ad arrivare al luogo dove vive Medusa. Utilizza lo scudo che gli farà da riflesso senza guardare la Gorgona ed evitando così il suo sguardo diretto e pietrificatore. Riesce a decapitare Medusa con l’aiuto di Atena che guida la sua mano.
Dal collo di Medusa emerge Pegaso il famoso cavallo alato, che lo accompagnerà. Perseo raccoglie la testa di Medusa e ritorna a Serifo. Le sorelle di Medusa cercarono di inseguire Perseo ma non ci riescono perché l’eroe si rende invisibile grazie al casco di Ade. Di ritorno all’isola Perseo scopre che Polidette ha cercato di insinuare sua madre. Infuriato utilizza la testa di Medusa per convertire lui e i suoi seguaci in pietra.
Dopo di ciò le sue avventure continueranno. Si riconcilierà con suo nonno si convertirà nel re di Argo.
Tuttavia nei festeggiamenti per il suo ritorno, accidentalmente ucciderà Acrisio.
L’oracolo della nascita di Danae è compiuto!

La scultura di Perseo di Benvenuto Cellini che si trova a Firenze è assolutamente una delle mie sculture preferite. La scultura è solenne, austera e imponente. Mette in evidenza la violenza e l’atroce destino di Medusa che giace decapitata sotto i piedi di Perseo che con fierezza mantiene la testa tra le sue mani, mostrandola con orgoglio.

Medusa ha una storia estremamente tragica in puro stile greco.
Vi narro la sua storia.
Originalmente Medusa era una sacerdotessa del seguito di Atena. Viveva con lei nel suo tempio; seppur la storia varia in alcuni dettagli, Medusa offese Atena mantenendo rapporti sessuali nel suo tempio, profanando così il luogo sacro caro alla dea. In un’altra versione, Medusa si fece beffa della bellezza di Atena, che offesa, decise di castigarla trasformandola in una creatura orrenda con i
capelli di serpenti e lo sguardo pietrificante.
Medusa e le sue sorelle Esteno y Euriale, si convertono nelle Gorgone, delle creature mostruose che terrorizzavano chiunque si incroci nel loro cammino pietrificando qualsiasi persona che le guardi negli occhi.

Una delle immagini più conosciute di Medusa è la pittura realizzata su uno scudo da Caravaggio.

 

Testa di Medusa è un’opera di Caravaggio del 1597, conservata oggi nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
La furia, la rabbia e la forza che si osservano nell’immagine della donna sono insieme al tema delle teste sgozzate delle caratteristiche del pittore milanese, che possiamo osservare in altre opere che riflettono la crudeltà della realtà.
In una versione della storia diversa, Medusa viene posseduta dal dio Nettuno nel tempio di Atena che la trasformerà poi in un mostro per castigarla. Bisogna dire che è una profonda ingiustizia e che il suo destino fu assolutamente immeritato frutto di arroganza e dispotismo della dea Atena. Ma non è l’unico caso o l’unica volta in cui assisteremo a un tipo di destino così infame.
La storia della ninfa Calisto e il suo tragico destino hanno qualcosa di simile con la storia di Medusa.
Ma questo è un altro caso di Art Detective.

Di Venere e Adone o di come l’amore non ha età

La dea Venere continua ad accompagnarci con la sua bellezza e i suoi innamoramenti.

Nei precedenti casi di Art Detective ho parlato delle differenti sfaccettature della dea, della sua bellezza travolgente e dei suoi incantamenti.

In questo caso seguiremo le tracce degli amori della dea, di quelli più conosciuti e appassionanti.

Ne abbiamo mostra in differenti pitture e di vari artisti, che si sono fatti affascinare dalla dea. Tiziano e Rubens ancora una volta saranno i miei punti cardine e il Museo del Prado il mio luogo del cuore.

Venere è la dea romana che corrisponde all’Afrodite greca. Il suo nome greco proviene dalla parola spuma, aphros in greco, che indica la sua nascita dalla spuma del mare, così come la conosciamo da molte immagini della pittura universale, come per esempio Botticelli, Bouguereau o Cabanel per menzionarle solo alcuni.

In quanto al nome romano, Venere, è la traduzione letterale del latino, venus, eris che è associato alla grazia e all’incanto così come anche al pianeta.

Dal suo nome proviene anche la veneras o vieira, parola spsgnola che indica la conchiglia dalla quale nasce. Dal sostantivo latino veneratio, il sentimento di adorazione e letteralmente venerazione che si prova verso qualcuno.

E continuando abbiamo anche la parola veleno, dal latino venenum, da venus, eris come filtro d’amore associato alla dea, in questo caso con conseguenze letali.

Afrodisiaco viene dal nome greco Afrodita, una parola che si riferisce senza dubbio alla sua sfaccettatura erotica e sensuale così come abbiamo visto in altri casi di Art detective.

Rispetto al suo nome potremmo continuare ad infinitum con significati e vincoli di parole ed epiteti originati dalla dea nel corso della storia.

Ciò nonostante qualsiasi sia il nome con cui chiamiamo la dea, che sia Venere o Afrodite, è inevitabile associarla con la bellezza, l’amore e il piacere.

Afrodite nella tradizione greca è sposata con Efesto il dio brutto ed iracondo. Ma uno dei suoi amori più conosciuti è il dio Marte con il quale avrà uno dei suoi figli più illustre: Cupido.

Tuttavia i due dei citati non sono gli unici né gli ultimi dei suoi amori. La dea è protagonista di vari miti nei quali arriva ad essere addirittura sposata con Anchise il padre di Enea che come è saputo fondò Roma.

Nel caso di oggi di Art Detective parleremo di una storia che racconta il poeta Ovidio nella sua opera Le Metamorfosi.

La storia è quella di Adone uno degli amori più impetuosi e struggenti di Venere.

Adone nasce da Mirra, una ragazza che fu condannata ad essere trasformata in albero

per scappare dall’ira di suo padre. Castigata dalla stessa dea Venere, impazzita, giace con suo padre Cinira, il quale nel rendersi conto dell’atto cercherà di ucciderla.

Ella scappa e si trasforma in un albero di mirra dal quale nascerà Adone “Sia padre l’avo, e madre la sorella”, figlio del nonno e madre la sorella, così come si legge tra le righe di Ovidio.

Venere che assiste alla nascita si innamora della sua bellezza, di questo giovine cacciatore, eterno fanciullo. È per questo che non vorrà separarsi mai da lui

Tiziano realizza per il re Filippo II di Spagna una pittura che rappresenta Venere e Adone nella quale ci rappresenta il momento in cui Venere cerca di impedire il passo del suo amato verso la morte.

Questa è una scena immaginata e creata dallo stesso pittore scena che non è citata dallo scrittore latino che è un riferimento per tutti i pittori che si dedicavano alla pittura mitologica.

Il quadro di Venere e Adone che si conserva nel Museo del Prado, datato 1554 fa parte delle “Poesie” di Tiziano così come Danae, una pittura di cui abbiamo già parlato in un altro caso di Art detective.

 

Come si può immaginare non è l’unica versione che il maestro Tiziano realizzò. Nella National Gallery di Londra c’è una versione del quadro attribuita al pittore veneziano.

 

La composizione è praticamente identica. Venere impedisce il passo al suo amato affinché non la abbandoni. Sappiamo che vuole evitare che Adone vada verso il suo destino di morte ma Tiziano ci trasmette inoltre un messaggio di seduzione che in questo caso è offerto allo spettatore dall’immagine di Venere che non si presenta come soggetto passivo ma come un soggetto attivo e pensante che prende l’iniziativa verso il suo amato. Adone morirà, ferito fatalmente da un cinghiale nonostante le suppliche di Venere di allontanarsi dall’animale “Lascia, che sia da gli altri il verre ucciso “.

Sullo sfondo del quadro vediamo Cupido addormentato; dei cani da caccia accompagnano Adone. Questo quadro fu concepito per stare a fianco a Danae per mostrare il corpo femminile in tutto il suo splendore. Danae nella versione frontale Venere invece nella versione posteriore, una delle parti più ammirate e proibite del corpo femminile, molto apprezzata nell’epoca.

Il Venere e Adone di Londra è datato 1555.

Ci sono altre due versioni che si trovano negli Stati Uniti una nella National Gallery di Washington l’altra a New York. Entrambe sono datate 1560. La composizione è leggermente differente dalle anteriori.

 

Cupido per esempio non dorme ma osserva attentamente tutta la scena ed è

ragionevole che lo faccia poiché egli è precisamente responsabile di tutto quanto accaduto. È stato lui che ha fatto innamorare sua madre del giovane. Così come narra Ovidio la dea è attraversata dalla freccia magica di suo figlio che involontariamente la ferisce d’amore mentre le dà un bacio.

Nel quadro Venere , Adone e Cupido, non di Tiziano ma di un altro pittore italiano

barocco, Annibale Carracci, possiamo apprezzare tutta la scena del momento in cui Venere si innamora di Adone. Il quadro si conserva ed espone nel Museo del Prado.

 

Il mito di Venere e Adone ha suscitato molto interesse nei pittori durante la storia così che continuiamo a raccontarla attraverso la pittura di alcuni di essi.

L’amore tra la dea e il mortale fanciullo è descritto anche da un altro grande pittore di tradizione veneziana, Paolo Veronese.

 

l quadro è datato 1580 e si trova nella collezione del Museo del Prado. Fu uno degli acquisti per il re Filippo IV realizzata da Velázquez durante il suo viaggio in Italia.

Il quadro di Veronese è molto differente da quello di Tiziano.

La scena si ispira ancora una volta al libro di Ovidio Le Metamorfosi così come gli stesso recita “Su l’herba egli, e la Dea s’asside, e stende, Per darsi ad ogni ben, che più amor prezza: E quel diletto l’un de l’altro prende, Che vuol la loro età, la lor bellezza. Di grado in grado il lor piacere ascende, Fin che possiedon l’ultima dolcezza.”.

In esso vediamo Adone che dorme fra le braccia Venere, che lo protegge e accarezza, con tenerezza e amore, nascondendo il timore per l’infame destino del giovine cacciatore.

L’emozione e i sentimenti della dea ci vengono trasmessi dal pittore e non da Ovidio scrittore e narratore della storia “originale”.

Venere tra carezze e baci narra una storia al suo dolce amante, per allietare il suo sonno. Una storia che già abbiamo appreso in un caso di Art Detective: quella di Atalanta e Ippomene.

Nella storia di Atalanta e Ippomene entrambi gli innamorati saranno trasformati in leoni per volontà della stessa Venere che, seppure all’inizio si intenerisce per l’amore senza speranza di Ippomenei e per questo decide di aiutarlo, più tardi si sentirà offesa per non avere ricevuto nessun grazie dopo l’unione degli innamorati. Ecco perché li trasforma in leoni.

Nella scena narrata da Veronese, Cupido sorregge un cane che sembra volersi svegliare e quindi guidare Adone verso la caccia. Nel racconto di Ovidio i cani sono quelli che lo trascineranno verso il cinghiale che lo ferirà poi a morte. Un altro cane

dorme serenamente ai piedi del suo padrone, entrambi inebriati dal sonno, e da Venere che ne ha cura.

Le differenti versioni del mito e le interpretazioni che ogni pittore ne fa, ci mostra lo sforzo artistico e intellettuale che ognuno di essi, a suo modo, traccia, definendo un’immagine di bellezza e di sublimazione dell’amore. Gli artisti si ergono ad autori e poeti nella narrazione del mito. Affermano una presa di conoscenza che si allontana dall’idea imperante dell’epoca che vedere i pittori come semplici artigiani, che usavano nell’altro che le proprie mani per il mestiere, lasciando completamente da parte l’intelletto.

Tiziano infatti afferma il valore poetico delle sue opere sottolineando l’importanza della pittura e dell’arte che si innalzano sullo stesso livello nella cultura universale, come Poesie, come egli stesso le definì.

La reinterpretazione e la rappresentazione del mito sono un mezzo per affermare il suo talento e quello di tutti gli altri pittori che ne seguiranno l’esempio.

Non dimentichiamo che Venezia è la culla di grandi pittori un porto commerciale del mondo una città rivoluzionaria aperta, emancipata, unica nella sua epoca.

Tiziano, poeta dell’Arte e Veronese, cultore della bellezza concepita attraverso la letteratura.

In generale i pittori veneziani sono unici e è molto abili nella loro arte; dall’utilizzo della luce, che si riflette attraverso il mare, fino all’uso dei colori vivi e brillanti, tutte elementi che definiscono il loto stile. Basta guardare gli azzurri dei cieli di Tiziano e i verdi dei suoi paesaggi o gli arancioni di Veronese; il bianco della pelle di Venere che ci porta ad una dimensione divina che appartiene all’ irraggiungibile ma che realtà si trova sotto gli occhi di tutti.

In questa selezione di opere d’arte non poteva mancare Rubens. Di lui abbiamo parlato in differenti casi di Art Detective come copista delle opere di Tiziano. In questo caso e nella rappresentazione del mito di Venere e Adone si è sicuramente ispirato al maestro veneziano ma la composizione delle sue opere che trattano il mito della dea, innamorata e disperata per salvare il suo amore, sono molto differenti dagli originali di Tiziano.

L’opera di Rubens è stata realizzata tra il 1609 e il 1614.

 

Conservati rispectivamentenel Kunstpalast Museum (Germania) e ne l’Hermitage Museum (Russia), i due quadri sono molto simili.

La dimensione e la forma della versione del 1609, verticale, si amplierà e diventerà più grande nella versione del 1614.

Il tema sempre è sempre lo stesso. Venere cerca di impedire al suo innamorato che vada via, che la lasci e che alla fine muoia. La presenza dei cigni, meravigliosi e di un’eleganza raffinata, ci invitano all’amore tra i due e suggeriscono la speranza che Adone rimanga e non vada via.

Il carro e i cigni appartengono a Venere e sono tra suoi attributi più distintivi. Cupido in una delle due versioni rimane fermo e attonito senza capire, guarda la scena passivamente. Nell’altra versione invece cerca fermamente di impedire il passo del cacciatore determinato ad andare via ignorando quello che succederà.

In realtà tutti ignorano il destino di Adone. Solo Ovidio narra la vera storia del mito.

Adone si sveglia dal suo sonno una volta che Venere è andata “Spiegan con questo dir le penne al vento i cigni, e vanno al regno eterno, e pio, e fanno allegro il ciel de lo splendore de la benigna Dea madre d’Amore”. Ma immediatamente dal cielo ella vedrà la macabra scena della morte di Adone ferito, dalle zanne del cinghiale, all’inguine. Reagisce da lontano al gemere di colui che morirà, esanime.

Rubens realizza inoltre il quadro di questo momento tragico.

 

La scena è estremamente teatrale drammatica ed emozionante. Ci lasciamo prendere dal sordo grido di Venere che rimane lì accarezzando ancora una volta il volto e i capelli di Adone.

Ancora più tragica è l’attitudine delle tre Grazie e di Cupido, disperato per quanto è accaduto. Una meraviglia che abbiamo la fortuna di ammirare nel Museo di Israele.

L’opera di Rubens è del 1614 nella quale possiamo inoltre apprezzare la bellezza di Adone la bellezza del suo corpo scultoreo che nonostante la morte non smette di farci innamorare.

Mamma mia che tragedia!

Nei miti greci molto spesso si trattano temi violenti e tragici in altre occasioni invece si parla di amore e di salvezza come per esempio la storia di Perseo e Andromeda.

Ma questo è un altro caso di Art Detective.

 

Guido Reni o come il classicismo barocco trova il suo splendore nel pennello del maestro bolognese

In questo caso di Art Detective voglio parlare di un pittore straordinario: Guido Reni.
Questo superlativo pittore bolognese distaccò per il suo stile, permeato da un gran
classicismo in un’epoca e in un’arte barocca.
Approfittando dell’attuale esposizione del Museo del Prado dedicata a Reni, che
esibisce intorno a 100 pezzi provenienti da più di 40 musei, ho selezionato tre opere da
investigare in puro stile Art Detective.
Queste opere sono delle versioni che l’artista realizzò mediante una tecnica sorprendente,
quella del calco.
Furono create in differenti momenti della sua vita e abordano diversi temi. Spaziano tra
la mitologia, le leggende e la religione in maniera perfetta e armonica.
Guido Reni iniziò la sua carriera sotto l’influenza del suo maestro Annibale Carracci e del
naturalismo classico, uno stile artistico che cerca di rappresentare la natura e il mondo reale
con fedeltà e precisione.
Tuttavia Reni sviluppò uno stile personale, distintivo, che lo differenziò da altri artisti della sua
epoca.
Tra le caratteristiche più rilevanti del suo stile vi sono l’eleganza, la delicatezza e il trattamento
delle figure. I suoi personaggi hanno dei tratti delicati e proporzioni armoniose che
conferiscono loro una bellezza idealizzata.
Reni è abile nel rappresentare la pelle delicata e le pieghe delle tele con grande
dominio tecnico, che aggiunge ad esso un grande realismo così come vari dettagli alla
sua opera.
La luce è un altro elemento distintivo della sua arte. Reni era solito utilizzare una luce
diffusa e avvolgente che generava un effetto di chiaroscuro lieve e creava un’atmosfera
eterea. Questa sensazione di delicatezza si vedeva accentuata dalla scelta di colori
pastello.
Inizierò presentando una delle stelle della mostra “Guido Reni” del Museo del Prado:
Ippomene e Atalanta.
Ne ho già parlato in un altro caso di Art detective.
Ippomene e Atalanta sono i leoni che trainano il carro di Cibele. Vi ricordate?

Prima di diventare degli animali, erano una giovane e un giovine.
Atalanta era una donna meravigliosa che rifiutava di sposarsi; lo avrebbe fatto solo a
patto che si gareggiasse con lei in una corsa, sapendo che fosse impresa impossibile
per qualsiasi mortale.
D’altra parte, Ippomene, era un giovane innamorato di Atalanta, che con l’aiuto di
Venere, conquisterà il suo cuore.
Seguendo il consiglio di Venere, Ippomene lancia tre mele d’oro durante la sua corsa
per distrarre Atalanta così da ottenere la vittoria. Le mele, ad egli consegnate da

Venere, provenivano dal giardino delle Esperidi un luogo sacro dove crescevano alberi
che producevano mele dorate con delle proprietà magiche, simbolo d’immortalità.
Le mele erano custodite da Ladone, un drago da 100 teste che proteggeva i frutti. Rubare le
mele era quasi impossibile, visto che chiunque vi provasse, doveva affrontare la feroce bestia.
Ercole l’affrontò in uno delle sue dodici fatiche.
Ma questa è un’altra storia, che sicuramente racconterò in un altro caso di Art
Ddetective in futuro.
Nell’opera di Guido Reni, la scena rappresenta i due giovani in una posa di danza, come se
stessero ballando al suono di una musica celestiale.
Atalanta si presenta nel lato sinistro della pittura raccogliendo la seconda mela d’oro.
Ippomene dall’altro lato la guarda con gli occhi che riflettono la certezza della vittoria.
I corpi di entrambi sono incrociati, tra le gambe e le braccia, formando delle diagonali
perfette. Dei drappi voluttuosi coprono i corpi dei due. I colori di un bianco candido in
un meraviglioso gioco di chiaroscuro contrastano con il fondo azzurro del cielo e del
mare.
Nella mostra “Guido Reni” dedicata al pittore, possiamo ammirare entrambe le pitture
praticamente identiche eseguite dall’ artista bolognese.
Uno dei due quadri appartiene al Museo del Prado e l’altro alla collezione del Museo
Nazionale di Capodimonte di Napoli.

 

L’opera del Museo del Prado è datata 1618 e 1 6 2 5 ed ha una storia incredibile, nel puro stile
Art Detective.
Per molto tempo, è stata considerata una copia e, pertanto non ha occupato un luogo
di rilevanza nel nostro museo di Madrid. Tuttavia, la sua odissea comincia dall’Italia a
Madrid molto tempo addietro.
Il quadro appartenne a Giovan Francesco Serra, marchese di Cassano di Calabria.
Calabria la mia regione di nascita. Che meraviglia! Serra, un genovese impiantato a
Napoli, fu un grande collezionista d’arte, e molti dei suoi quadri furono acquisiti dal
viceré di Napoli in nome del re spagnolo Filippo IV.
Il quadro si trovava nel Alcázar di Madrid fino all’incendio del 1734; ma si salvò da
quella che fu la maggiore tragedia della storia per tutte le opere d’arte in esso
conservate.
Durante il regno di Carlo III di Spagna, si considerò osceno e si arrivò quasi a
bruciarlo, ma fortunatamente questo non avvenne. Posteriormente, si trovò nella Reale
Accademia delle Belle Arti di San Fernando di Madrid tra il 1796 e il 1827, anno in cui
fu integrato nella collezione del Museo del Prado. Dovuto al fatto che era considerato
una copia fu di nuovo trasferito.
Questa volta arrivò fino alla città di Granada. Dopo uno studio molto approfondito del
quadro, si determinò che fosse un originale del pittore e cominciò ad acquisire una
certa importanza.
Recentemente, è stato restaurato dal Almudena Sanchez, restauratrice del Museo del Prado,
che ha restituito al quadro il suo splendore originale.
Grazie a ciò, si possono apprezzare leggere differenze che esistono tra il suo gemello di
Capodimonte, per esempio in alcuni dettagli del piede di Ippomene, altri nel paesaggio o il
colore del cielo.
L’opera fu realizzata dal pittore a partire da un calco, una sorta di “carta copiativa” delle
opere. Nella mostra e nell’opera di Reni in generale si possono trovare differenti dipinti
ripetuti.
David García Cueto, commissario dell’esposizione “Guido Reni”, spiega questa usanza
di “ripetere” e non “copiare” i quadri. Ribadisce la differenza tra una copia e una
ripetizione. In una ripetizione si riconosce l’originalità nell’esecuzione. Invece quando
parliamo di copia, la maggior parte delle volte, il lavoro è stato eseguito da un altro
pittore o dalla sua bottega. Da qui il lungo dibattito se le opere di Reni fossero o no
originali.
Guido Reni utilizzava una sorta di base in cartone per ripetere esattamente o quasi lo
stesso quadro.
Come descrice David García Cueto, è come se fosse la base di impuntatura e il
modello che usa un sarto.
Le versioni di Ippomene e Atalanta conservate nel Museo del Prado e di Capodimonte furono
realizzate a distanza di pochi anni.

È strabiliante poterle ammirare insieme per la prima volta nella mostra “Guido Reni”!

Passiamo adesso all’opera dell’esposizione di Reni che ritratta la regina Cleopatra. Nella
mostra si presentano una volta ancora due pitture che sono quasi identiche, una appartenente
al Museo del Prado e l’altra alla collezione privata del Re Carlo III d’ Inghilterra.

 

Cleopatra, l’affascinante figura storica che governò L’Antico Egitto dall’anno 51 a.c fino alla sua
morte nel 30 a.c, ha lasciato una profonda eredità nella cultura popolare, all’essere ricordata
per la sua intelligenza, le sue abilità diplomatiche, e la sua relazione con i leader romani Giulio
Cesare e Marco Antonio.
La sua connessione con l’aspide, rappresentato come il simbolo iconico del suo tragico
destino, è durato a lungo durante i secoli. Secondo le fonti storiche, Cleopatra scelse di
affrontare il suo tragico destino e la possibilità di cadere in mano ai nemici dopo la
sconfitta di Marco Antonio nella guerra contro Ottavio, togliendosi la vita usando il
morso di un serpente velenoso, per l’appunto l’aspide.
Questa scena è stata plasmata in innumerevoli opere d’arte durante la storia, catturandone
l’intensità e il drammatismo.

Nel mondo dell’arte, Guido Reni ha lasciato la sua traccia nella rappresentazione di
Cleopatra e il vincolo con l’aspide.
Con la sua destrezza tecnica e la sua abilità nel creare composizioni equilibrate Reni
rappresenta Cleopatra in uno stato di serena bellezza ed eleganza.
In questa opera specialmente, si può osservare lo sguardo intenso e profondo della
regina e il suo volto che riflette solennità e contemplazione.
La figura di Cleopatra domina il primo piano della composizione, catturando
l’attenzione dello spettatore con la sua imponente presenza. Reni riesce a trasmettere
la bellezza idealizzata di Cleopatra, con linee dedicate e proporzioni che accentuano la
luminosità della sua pelle. È interessante notare che la tecnica del calco utilizzata da
Reni è evidente in queste due opere.
Sebbene esistono variazioni leggere nella composizione, tra la versione del Museo del
Prado e quella inglese, entrambe mostrano la destrezza artistica dei Reni e la sua
capacità per ricreare la figura di Cleopatra accattivante.
Nella riproduzione inglese invece di poggiare la mano sinistra sul cesto dell’aspide, la
estende teatralmente sul suo petto. I vestiti si rappresentano in colori differenti, il manto
è rosa e non rosso, così come la camicia non ha più il bordo dorato come nella
versione del Prado.

Come sono arrivati al Museo del Prado e in Inghilterra le due opere di Guido Reni?

Il destino di entrambe le opere, sia per il Prado che per l’Inghilterra, è piuttosto
enigmatico. Secondo Carlo Ridolfi, pittore e biografo veneziano si sa che l’opera formò
parte della collezione del pittore fiammingo Nicolas Régnier.
Reni creò quest'opera in concomitanza con altre tre versioni di Cleopatra realizzate da altri
artisti: Palma il giovane, Régnier e Guercino. Anche se la pittura di Reni non raggiunse
il livello di riconoscimento di quella di Palma, è diventata un tesoro apprezzato da
Régnier che la conservò nella sua collezione personale.
Il destino dell’opera dopo essere appartenuta a Régnier continua ad essere piuttosto intricato.
Nel 1666, la pittura fu venduta in un’asta pubblica e posteriormente acquisita dal mercante
d’arte veneziano Francesco Fontana. Questi cercò di venderla a Leonardo dei Medici,
mostrando così l’ interesse che si destò anche nell’ambasciatore francese di Venezia.
Come entrambe le versioni siano poi arrivate rispettivamente al Museo del Prado e la
collezione privata di Carlo III d’Inghilterra continua ad essere un mistero. La versione
del Prado appare nell’inventario della Collezione Reale spagnola nel 1814, mentre
quella inglese apparve per la prima volta nella Leicester House, Londra, nel 1749.
Estremamente affascinante tutto non vi sembra?

Un altro esempio manifesto nell’uso del calco di Reni esibito nell’esposizione del Prado “Guido
Reni” e la figura di Santa Caterina d’Alessandria. Nelle sale del museo, una vicino all’altra, si
espongono due magnifiche opere: la Santa Catalina del Museo del Prado e la Santa
Catalina de Patrimonio Nacional del Real Sitio de la Granja de San Ildefonso.
Questa occasione unica e irripetibile ci permette di apprezzare da vicino le particolarità
di ognuna di esse.

 

 

 

Secondo la leggenda, Santa Caterina fu una filosofa e martire che visse nel IV secolo nella città
di Alessandria, Egitto. Anche se i dettagli della sua vita sono in gran parte leggendari, la sua
figura è stata oggetto di devozione ed ampiamente rappresentata nell’arte cristiana.
La sua tradizionale storia racconta che Caterina era una giovane di straordinaria
bellezza e intelligenza, che abbracciò la fede cristiana sin dalla giovine età. Si dice che

dibatté con saggi pagani e filosofi, difendendo con fervore la fede cristiana e
convertendo molti ad essa. Le si attribuisce inoltre la conversione di alcuni imperatori
romani.
La storia più conosciuta di Santa Caterina è quella dello scontro con l’imperatore romano
Maximino Daya.
Questo crudele governante la sottomise a prove e torture nel tentativo di farle
rinunciare alla fede. Tuttavia, secondo la leggenda, Santa Caterina sopravvisse a
diverse di esse, come la ruota, che miracolosamente si ruppe senza toccare la sua
mano. Il 25 di novembre dell’anno 307 d.c fu decapitata.
Santa Caterina d’Alessandria è considerata la patrona di diversi gruppi e professioni,
tra i quali studenti, filosofi, oratori, avvocati e bibliotecari. La sua influenza e devozione
si sono estesi molto nel corso dei secoli.

Attraverso la storia, Santa Caterina è stata rappresentata in innumerevoli opere d’arte,
tanto in pittura come in scultura. È frequente vederla ritratta come una giovane
bellissima, vestita con una tunica, sostenendo una palma, simbolo del suo martirio, una
ruota dentata, simbolo delle prove alle quali è stata sottomessa.
Le due opere di Reni che mostrano Santa Caterina appartengono alla collezione
Maratti, un riconosciuto pittore barocco italiano oriundo di Roma. Queste opere furono
acquisite dal re Filippo V di Borbone nel 1722, e da allora hanno attratto gli amanti
dell'arte con il suo splendore.
Per molto tempo, la versione de la Granja fu considerata una copia, mentre quella del
Prado fu attribuita erroneamente al pittore Domenichino.
Tuttavia, nel corso del XX secolo, si è riuscita a confermare con certezza la paternità del
talentoso pittore bolognese Guido Reni.

Non perdete l’occasione di visitare l’esposizione “Guido Reni” nel Museo del Prado di
Madrid. Avete tempo fino al 9 luglio del 2023 per dilettarvi con la genialità di questo
grande maestro.

Altre storie e viaggi ci attendono nei prossimi casi di Art detective.