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Di Venere e Adone o di come l’amore non ha età

La dea Venere continua ad accompagnarci con la sua bellezza e i suoi innamoramenti.

Nei precedenti casi di Art Detective ho parlato delle differenti sfaccettature della dea, della sua bellezza travolgente e dei suoi incantamenti.

In questo caso seguiremo le tracce degli amori della dea, di quelli più conosciuti e appassionanti.

Ne abbiamo mostra in differenti pitture e di vari artisti, che si sono fatti affascinare dalla dea. Tiziano e Rubens ancora una volta saranno i miei punti cardine e il Museo del Prado il mio luogo del cuore.

Venere è la dea romana che corrisponde all’Afrodite greca. Il suo nome greco proviene dalla parola spuma, aphros in greco, che indica la sua nascita dalla spuma del mare, così come la conosciamo da molte immagini della pittura universale, come per esempio Botticelli, Bouguereau o Cabanel per menzionarle solo alcuni.

In quanto al nome romano, Venere, è la traduzione letterale del latino, venus, eris che è associato alla grazia e all’incanto così come anche al pianeta.

Dal suo nome proviene anche la veneras o vieira, parola spsgnola che indica la conchiglia dalla quale nasce. Dal sostantivo latino veneratio, il sentimento di adorazione e letteralmente venerazione che si prova verso qualcuno.

E continuando abbiamo anche la parola veleno, dal latino venenum, da venus, eris come filtro d’amore associato alla dea, in questo caso con conseguenze letali.

Afrodisiaco viene dal nome greco Afrodita, una parola che si riferisce senza dubbio alla sua sfaccettatura erotica e sensuale così come abbiamo visto in altri casi di Art detective.

Rispetto al suo nome potremmo continuare ad infinitum con significati e vincoli di parole ed epiteti originati dalla dea nel corso della storia.

Ciò nonostante qualsiasi sia il nome con cui chiamiamo la dea, che sia Venere o Afrodite, è inevitabile associarla con la bellezza, l’amore e il piacere.

Afrodite nella tradizione greca è sposata con Efesto il dio brutto ed iracondo. Ma uno dei suoi amori più conosciuti è il dio Marte con il quale avrà uno dei suoi figli più illustre: Cupido.

Tuttavia i due dei citati non sono gli unici né gli ultimi dei suoi amori. La dea è protagonista di vari miti nei quali arriva ad essere addirittura sposata con Anchise il padre di Enea che come è saputo fondò Roma.

Nel caso di oggi di Art Detective parleremo di una storia che racconta il poeta Ovidio nella sua opera Le Metamorfosi.

La storia è quella di Adone uno degli amori più impetuosi e struggenti di Venere.

Adone nasce da Mirra, una ragazza che fu condannata ad essere trasformata in albero

per scappare dall’ira di suo padre. Castigata dalla stessa dea Venere, impazzita, giace con suo padre Cinira, il quale nel rendersi conto dell’atto cercherà di ucciderla.

Ella scappa e si trasforma in un albero di mirra dal quale nascerà Adone “Sia padre l’avo, e madre la sorella”, figlio del nonno e madre la sorella, così come si legge tra le righe di Ovidio.

Venere che assiste alla nascita si innamora della sua bellezza, di questo giovine cacciatore, eterno fanciullo. È per questo che non vorrà separarsi mai da lui

Tiziano realizza per il re Filippo II di Spagna una pittura che rappresenta Venere e Adone nella quale ci rappresenta il momento in cui Venere cerca di impedire il passo del suo amato verso la morte.

Questa è una scena immaginata e creata dallo stesso pittore scena che non è citata dallo scrittore latino che è un riferimento per tutti i pittori che si dedicavano alla pittura mitologica.

Il quadro di Venere e Adone che si conserva nel Museo del Prado, datato 1554 fa parte delle “Poesie” di Tiziano così come Danae, una pittura di cui abbiamo già parlato in un altro caso di Art detective.

 

Come si può immaginare non è l’unica versione che il maestro Tiziano realizzò. Nella National Gallery di Londra c’è una versione del quadro attribuita al pittore veneziano.

 

La composizione è praticamente identica. Venere impedisce il passo al suo amato affinché non la abbandoni. Sappiamo che vuole evitare che Adone vada verso il suo destino di morte ma Tiziano ci trasmette inoltre un messaggio di seduzione che in questo caso è offerto allo spettatore dall’immagine di Venere che non si presenta come soggetto passivo ma come un soggetto attivo e pensante che prende l’iniziativa verso il suo amato. Adone morirà, ferito fatalmente da un cinghiale nonostante le suppliche di Venere di allontanarsi dall’animale “Lascia, che sia da gli altri il verre ucciso “.

Sullo sfondo del quadro vediamo Cupido addormentato; dei cani da caccia accompagnano Adone. Questo quadro fu concepito per stare a fianco a Danae per mostrare il corpo femminile in tutto il suo splendore. Danae nella versione frontale Venere invece nella versione posteriore, una delle parti più ammirate e proibite del corpo femminile, molto apprezzata nell’epoca.

Il Venere e Adone di Londra è datato 1555.

Ci sono altre due versioni che si trovano negli Stati Uniti una nella National Gallery di Washington l’altra a New York. Entrambe sono datate 1560. La composizione è leggermente differente dalle anteriori.

 

Cupido per esempio non dorme ma osserva attentamente tutta la scena ed è

ragionevole che lo faccia poiché egli è precisamente responsabile di tutto quanto accaduto. È stato lui che ha fatto innamorare sua madre del giovane. Così come narra Ovidio la dea è attraversata dalla freccia magica di suo figlio che involontariamente la ferisce d’amore mentre le dà un bacio.

Nel quadro Venere , Adone e Cupido, non di Tiziano ma di un altro pittore italiano

barocco, Annibale Carracci, possiamo apprezzare tutta la scena del momento in cui Venere si innamora di Adone. Il quadro si conserva ed espone nel Museo del Prado.

 

Il mito di Venere e Adone ha suscitato molto interesse nei pittori durante la storia così che continuiamo a raccontarla attraverso la pittura di alcuni di essi.

L’amore tra la dea e il mortale fanciullo è descritto anche da un altro grande pittore di tradizione veneziana, Paolo Veronese.

 

l quadro è datato 1580 e si trova nella collezione del Museo del Prado. Fu uno degli acquisti per il re Filippo IV realizzata da Velázquez durante il suo viaggio in Italia.

Il quadro di Veronese è molto differente da quello di Tiziano.

La scena si ispira ancora una volta al libro di Ovidio Le Metamorfosi così come gli stesso recita “Su l’herba egli, e la Dea s’asside, e stende, Per darsi ad ogni ben, che più amor prezza: E quel diletto l’un de l’altro prende, Che vuol la loro età, la lor bellezza. Di grado in grado il lor piacere ascende, Fin che possiedon l’ultima dolcezza.”.

In esso vediamo Adone che dorme fra le braccia Venere, che lo protegge e accarezza, con tenerezza e amore, nascondendo il timore per l’infame destino del giovine cacciatore.

L’emozione e i sentimenti della dea ci vengono trasmessi dal pittore e non da Ovidio scrittore e narratore della storia “originale”.

Venere tra carezze e baci narra una storia al suo dolce amante, per allietare il suo sonno. Una storia che già abbiamo appreso in un caso di Art Detective: quella di Atalanta e Ippomene.

Nella storia di Atalanta e Ippomene entrambi gli innamorati saranno trasformati in leoni per volontà della stessa Venere che, seppure all’inizio si intenerisce per l’amore senza speranza di Ippomenei e per questo decide di aiutarlo, più tardi si sentirà offesa per non avere ricevuto nessun grazie dopo l’unione degli innamorati. Ecco perché li trasforma in leoni.

Nella scena narrata da Veronese, Cupido sorregge un cane che sembra volersi svegliare e quindi guidare Adone verso la caccia. Nel racconto di Ovidio i cani sono quelli che lo trascineranno verso il cinghiale che lo ferirà poi a morte. Un altro cane

dorme serenamente ai piedi del suo padrone, entrambi inebriati dal sonno, e da Venere che ne ha cura.

Le differenti versioni del mito e le interpretazioni che ogni pittore ne fa, ci mostra lo sforzo artistico e intellettuale che ognuno di essi, a suo modo, traccia, definendo un’immagine di bellezza e di sublimazione dell’amore. Gli artisti si ergono ad autori e poeti nella narrazione del mito. Affermano una presa di conoscenza che si allontana dall’idea imperante dell’epoca che vedere i pittori come semplici artigiani, che usavano nell’altro che le proprie mani per il mestiere, lasciando completamente da parte l’intelletto.

Tiziano infatti afferma il valore poetico delle sue opere sottolineando l’importanza della pittura e dell’arte che si innalzano sullo stesso livello nella cultura universale, come Poesie, come egli stesso le definì.

La reinterpretazione e la rappresentazione del mito sono un mezzo per affermare il suo talento e quello di tutti gli altri pittori che ne seguiranno l’esempio.

Non dimentichiamo che Venezia è la culla di grandi pittori un porto commerciale del mondo una città rivoluzionaria aperta, emancipata, unica nella sua epoca.

Tiziano, poeta dell’Arte e Veronese, cultore della bellezza concepita attraverso la letteratura.

In generale i pittori veneziani sono unici e è molto abili nella loro arte; dall’utilizzo della luce, che si riflette attraverso il mare, fino all’uso dei colori vivi e brillanti, tutte elementi che definiscono il loto stile. Basta guardare gli azzurri dei cieli di Tiziano e i verdi dei suoi paesaggi o gli arancioni di Veronese; il bianco della pelle di Venere che ci porta ad una dimensione divina che appartiene all’ irraggiungibile ma che realtà si trova sotto gli occhi di tutti.

In questa selezione di opere d’arte non poteva mancare Rubens. Di lui abbiamo parlato in differenti casi di Art Detective come copista delle opere di Tiziano. In questo caso e nella rappresentazione del mito di Venere e Adone si è sicuramente ispirato al maestro veneziano ma la composizione delle sue opere che trattano il mito della dea, innamorata e disperata per salvare il suo amore, sono molto differenti dagli originali di Tiziano.

L’opera di Rubens è stata realizzata tra il 1609 e il 1614.

 

Conservati rispectivamentenel Kunstpalast Museum (Germania) e ne l’Hermitage Museum (Russia), i due quadri sono molto simili.

La dimensione e la forma della versione del 1609, verticale, si amplierà e diventerà più grande nella versione del 1614.

Il tema sempre è sempre lo stesso. Venere cerca di impedire al suo innamorato che vada via, che la lasci e che alla fine muoia. La presenza dei cigni, meravigliosi e di un’eleganza raffinata, ci invitano all’amore tra i due e suggeriscono la speranza che Adone rimanga e non vada via.

Il carro e i cigni appartengono a Venere e sono tra suoi attributi più distintivi. Cupido in una delle due versioni rimane fermo e attonito senza capire, guarda la scena passivamente. Nell’altra versione invece cerca fermamente di impedire il passo del cacciatore determinato ad andare via ignorando quello che succederà.

In realtà tutti ignorano il destino di Adone. Solo Ovidio narra la vera storia del mito.

Adone si sveglia dal suo sonno una volta che Venere è andata “Spiegan con questo dir le penne al vento i cigni, e vanno al regno eterno, e pio, e fanno allegro il ciel de lo splendore de la benigna Dea madre d’Amore”. Ma immediatamente dal cielo ella vedrà la macabra scena della morte di Adone ferito, dalle zanne del cinghiale, all’inguine. Reagisce da lontano al gemere di colui che morirà, esanime.

Rubens realizza inoltre il quadro di questo momento tragico.

 

La scena è estremamente teatrale drammatica ed emozionante. Ci lasciamo prendere dal sordo grido di Venere che rimane lì accarezzando ancora una volta il volto e i capelli di Adone.

Ancora più tragica è l’attitudine delle tre Grazie e di Cupido, disperato per quanto è accaduto. Una meraviglia che abbiamo la fortuna di ammirare nel Museo di Israele.

L’opera di Rubens è del 1614 nella quale possiamo inoltre apprezzare la bellezza di Adone la bellezza del suo corpo scultoreo che nonostante la morte non smette di farci innamorare.

Mamma mia che tragedia!

Nei miti greci molto spesso si trattano temi violenti e tragici in altre occasioni invece si parla di amore e di salvezza come per esempio la storia di Perseo e Andromeda.

Ma questo è un altro caso di Art Detective.

 

Guido Reni o come il classicismo barocco trova il suo splendore nel pennello del maestro bolognese

In questo caso di Art Detective voglio parlare di un pittore straordinario: Guido Reni.
Questo superlativo pittore bolognese distaccò per il suo stile, permeato da un gran
classicismo in un’epoca e in un’arte barocca.
Approfittando dell’attuale esposizione del Museo del Prado dedicata a Reni, che
esibisce intorno a 100 pezzi provenienti da più di 40 musei, ho selezionato tre opere da
investigare in puro stile Art Detective.
Queste opere sono delle versioni che l’artista realizzò mediante una tecnica sorprendente,
quella del calco.
Furono create in differenti momenti della sua vita e abordano diversi temi. Spaziano tra
la mitologia, le leggende e la religione in maniera perfetta e armonica.
Guido Reni iniziò la sua carriera sotto l’influenza del suo maestro Annibale Carracci e del
naturalismo classico, uno stile artistico che cerca di rappresentare la natura e il mondo reale
con fedeltà e precisione.
Tuttavia Reni sviluppò uno stile personale, distintivo, che lo differenziò da altri artisti della sua
epoca.
Tra le caratteristiche più rilevanti del suo stile vi sono l’eleganza, la delicatezza e il trattamento
delle figure. I suoi personaggi hanno dei tratti delicati e proporzioni armoniose che
conferiscono loro una bellezza idealizzata.
Reni è abile nel rappresentare la pelle delicata e le pieghe delle tele con grande
dominio tecnico, che aggiunge ad esso un grande realismo così come vari dettagli alla
sua opera.
La luce è un altro elemento distintivo della sua arte. Reni era solito utilizzare una luce
diffusa e avvolgente che generava un effetto di chiaroscuro lieve e creava un’atmosfera
eterea. Questa sensazione di delicatezza si vedeva accentuata dalla scelta di colori
pastello.
Inizierò presentando una delle stelle della mostra “Guido Reni” del Museo del Prado:
Ippomene e Atalanta.
Ne ho già parlato in un altro caso di Art detective.
Ippomene e Atalanta sono i leoni che trainano il carro di Cibele. Vi ricordate?

Prima di diventare degli animali, erano una giovane e un giovine.
Atalanta era una donna meravigliosa che rifiutava di sposarsi; lo avrebbe fatto solo a
patto che si gareggiasse con lei in una corsa, sapendo che fosse impresa impossibile
per qualsiasi mortale.
D’altra parte, Ippomene, era un giovane innamorato di Atalanta, che con l’aiuto di
Venere, conquisterà il suo cuore.
Seguendo il consiglio di Venere, Ippomene lancia tre mele d’oro durante la sua corsa
per distrarre Atalanta così da ottenere la vittoria. Le mele, ad egli consegnate da

Venere, provenivano dal giardino delle Esperidi un luogo sacro dove crescevano alberi
che producevano mele dorate con delle proprietà magiche, simbolo d’immortalità.
Le mele erano custodite da Ladone, un drago da 100 teste che proteggeva i frutti. Rubare le
mele era quasi impossibile, visto che chiunque vi provasse, doveva affrontare la feroce bestia.
Ercole l’affrontò in uno delle sue dodici fatiche.
Ma questa è un’altra storia, che sicuramente racconterò in un altro caso di Art
Ddetective in futuro.
Nell’opera di Guido Reni, la scena rappresenta i due giovani in una posa di danza, come se
stessero ballando al suono di una musica celestiale.
Atalanta si presenta nel lato sinistro della pittura raccogliendo la seconda mela d’oro.
Ippomene dall’altro lato la guarda con gli occhi che riflettono la certezza della vittoria.
I corpi di entrambi sono incrociati, tra le gambe e le braccia, formando delle diagonali
perfette. Dei drappi voluttuosi coprono i corpi dei due. I colori di un bianco candido in
un meraviglioso gioco di chiaroscuro contrastano con il fondo azzurro del cielo e del
mare.
Nella mostra “Guido Reni” dedicata al pittore, possiamo ammirare entrambe le pitture
praticamente identiche eseguite dall’ artista bolognese.
Uno dei due quadri appartiene al Museo del Prado e l’altro alla collezione del Museo
Nazionale di Capodimonte di Napoli.

 

L’opera del Museo del Prado è datata 1618 e 1 6 2 5 ed ha una storia incredibile, nel puro stile
Art Detective.
Per molto tempo, è stata considerata una copia e, pertanto non ha occupato un luogo
di rilevanza nel nostro museo di Madrid. Tuttavia, la sua odissea comincia dall’Italia a
Madrid molto tempo addietro.
Il quadro appartenne a Giovan Francesco Serra, marchese di Cassano di Calabria.
Calabria la mia regione di nascita. Che meraviglia! Serra, un genovese impiantato a
Napoli, fu un grande collezionista d’arte, e molti dei suoi quadri furono acquisiti dal
viceré di Napoli in nome del re spagnolo Filippo IV.
Il quadro si trovava nel Alcázar di Madrid fino all’incendio del 1734; ma si salvò da
quella che fu la maggiore tragedia della storia per tutte le opere d’arte in esso
conservate.
Durante il regno di Carlo III di Spagna, si considerò osceno e si arrivò quasi a
bruciarlo, ma fortunatamente questo non avvenne. Posteriormente, si trovò nella Reale
Accademia delle Belle Arti di San Fernando di Madrid tra il 1796 e il 1827, anno in cui
fu integrato nella collezione del Museo del Prado. Dovuto al fatto che era considerato
una copia fu di nuovo trasferito.
Questa volta arrivò fino alla città di Granada. Dopo uno studio molto approfondito del
quadro, si determinò che fosse un originale del pittore e cominciò ad acquisire una
certa importanza.
Recentemente, è stato restaurato dal Almudena Sanchez, restauratrice del Museo del Prado,
che ha restituito al quadro il suo splendore originale.
Grazie a ciò, si possono apprezzare leggere differenze che esistono tra il suo gemello di
Capodimonte, per esempio in alcuni dettagli del piede di Ippomene, altri nel paesaggio o il
colore del cielo.
L’opera fu realizzata dal pittore a partire da un calco, una sorta di “carta copiativa” delle
opere. Nella mostra e nell’opera di Reni in generale si possono trovare differenti dipinti
ripetuti.
David García Cueto, commissario dell’esposizione “Guido Reni”, spiega questa usanza
di “ripetere” e non “copiare” i quadri. Ribadisce la differenza tra una copia e una
ripetizione. In una ripetizione si riconosce l’originalità nell’esecuzione. Invece quando
parliamo di copia, la maggior parte delle volte, il lavoro è stato eseguito da un altro
pittore o dalla sua bottega. Da qui il lungo dibattito se le opere di Reni fossero o no
originali.
Guido Reni utilizzava una sorta di base in cartone per ripetere esattamente o quasi lo
stesso quadro.
Come descrice David García Cueto, è come se fosse la base di impuntatura e il
modello che usa un sarto.
Le versioni di Ippomene e Atalanta conservate nel Museo del Prado e di Capodimonte furono
realizzate a distanza di pochi anni.

È strabiliante poterle ammirare insieme per la prima volta nella mostra “Guido Reni”!

Passiamo adesso all’opera dell’esposizione di Reni che ritratta la regina Cleopatra. Nella
mostra si presentano una volta ancora due pitture che sono quasi identiche, una appartenente
al Museo del Prado e l’altra alla collezione privata del Re Carlo III d’ Inghilterra.

 

Cleopatra, l’affascinante figura storica che governò L’Antico Egitto dall’anno 51 a.c fino alla sua
morte nel 30 a.c, ha lasciato una profonda eredità nella cultura popolare, all’essere ricordata
per la sua intelligenza, le sue abilità diplomatiche, e la sua relazione con i leader romani Giulio
Cesare e Marco Antonio.
La sua connessione con l’aspide, rappresentato come il simbolo iconico del suo tragico
destino, è durato a lungo durante i secoli. Secondo le fonti storiche, Cleopatra scelse di
affrontare il suo tragico destino e la possibilità di cadere in mano ai nemici dopo la
sconfitta di Marco Antonio nella guerra contro Ottavio, togliendosi la vita usando il
morso di un serpente velenoso, per l’appunto l’aspide.
Questa scena è stata plasmata in innumerevoli opere d’arte durante la storia, catturandone
l’intensità e il drammatismo.

Nel mondo dell’arte, Guido Reni ha lasciato la sua traccia nella rappresentazione di
Cleopatra e il vincolo con l’aspide.
Con la sua destrezza tecnica e la sua abilità nel creare composizioni equilibrate Reni
rappresenta Cleopatra in uno stato di serena bellezza ed eleganza.
In questa opera specialmente, si può osservare lo sguardo intenso e profondo della
regina e il suo volto che riflette solennità e contemplazione.
La figura di Cleopatra domina il primo piano della composizione, catturando
l’attenzione dello spettatore con la sua imponente presenza. Reni riesce a trasmettere
la bellezza idealizzata di Cleopatra, con linee dedicate e proporzioni che accentuano la
luminosità della sua pelle. È interessante notare che la tecnica del calco utilizzata da
Reni è evidente in queste due opere.
Sebbene esistono variazioni leggere nella composizione, tra la versione del Museo del
Prado e quella inglese, entrambe mostrano la destrezza artistica dei Reni e la sua
capacità per ricreare la figura di Cleopatra accattivante.
Nella riproduzione inglese invece di poggiare la mano sinistra sul cesto dell’aspide, la
estende teatralmente sul suo petto. I vestiti si rappresentano in colori differenti, il manto
è rosa e non rosso, così come la camicia non ha più il bordo dorato come nella
versione del Prado.

Come sono arrivati al Museo del Prado e in Inghilterra le due opere di Guido Reni?

Il destino di entrambe le opere, sia per il Prado che per l’Inghilterra, è piuttosto
enigmatico. Secondo Carlo Ridolfi, pittore e biografo veneziano si sa che l’opera formò
parte della collezione del pittore fiammingo Nicolas Régnier.
Reni creò quest'opera in concomitanza con altre tre versioni di Cleopatra realizzate da altri
artisti: Palma il giovane, Régnier e Guercino. Anche se la pittura di Reni non raggiunse
il livello di riconoscimento di quella di Palma, è diventata un tesoro apprezzato da
Régnier che la conservò nella sua collezione personale.
Il destino dell’opera dopo essere appartenuta a Régnier continua ad essere piuttosto intricato.
Nel 1666, la pittura fu venduta in un’asta pubblica e posteriormente acquisita dal mercante
d’arte veneziano Francesco Fontana. Questi cercò di venderla a Leonardo dei Medici,
mostrando così l’ interesse che si destò anche nell’ambasciatore francese di Venezia.
Come entrambe le versioni siano poi arrivate rispettivamente al Museo del Prado e la
collezione privata di Carlo III d’Inghilterra continua ad essere un mistero. La versione
del Prado appare nell’inventario della Collezione Reale spagnola nel 1814, mentre
quella inglese apparve per la prima volta nella Leicester House, Londra, nel 1749.
Estremamente affascinante tutto non vi sembra?

Un altro esempio manifesto nell’uso del calco di Reni esibito nell’esposizione del Prado “Guido
Reni” e la figura di Santa Caterina d’Alessandria. Nelle sale del museo, una vicino all’altra, si
espongono due magnifiche opere: la Santa Catalina del Museo del Prado e la Santa
Catalina de Patrimonio Nacional del Real Sitio de la Granja de San Ildefonso.
Questa occasione unica e irripetibile ci permette di apprezzare da vicino le particolarità
di ognuna di esse.

 

 

 

Secondo la leggenda, Santa Caterina fu una filosofa e martire che visse nel IV secolo nella città
di Alessandria, Egitto. Anche se i dettagli della sua vita sono in gran parte leggendari, la sua
figura è stata oggetto di devozione ed ampiamente rappresentata nell’arte cristiana.
La sua tradizionale storia racconta che Caterina era una giovane di straordinaria
bellezza e intelligenza, che abbracciò la fede cristiana sin dalla giovine età. Si dice che

dibatté con saggi pagani e filosofi, difendendo con fervore la fede cristiana e
convertendo molti ad essa. Le si attribuisce inoltre la conversione di alcuni imperatori
romani.
La storia più conosciuta di Santa Caterina è quella dello scontro con l’imperatore romano
Maximino Daya.
Questo crudele governante la sottomise a prove e torture nel tentativo di farle
rinunciare alla fede. Tuttavia, secondo la leggenda, Santa Caterina sopravvisse a
diverse di esse, come la ruota, che miracolosamente si ruppe senza toccare la sua
mano. Il 25 di novembre dell’anno 307 d.c fu decapitata.
Santa Caterina d’Alessandria è considerata la patrona di diversi gruppi e professioni,
tra i quali studenti, filosofi, oratori, avvocati e bibliotecari. La sua influenza e devozione
si sono estesi molto nel corso dei secoli.

Attraverso la storia, Santa Caterina è stata rappresentata in innumerevoli opere d’arte,
tanto in pittura come in scultura. È frequente vederla ritratta come una giovane
bellissima, vestita con una tunica, sostenendo una palma, simbolo del suo martirio, una
ruota dentata, simbolo delle prove alle quali è stata sottomessa.
Le due opere di Reni che mostrano Santa Caterina appartengono alla collezione
Maratti, un riconosciuto pittore barocco italiano oriundo di Roma. Queste opere furono
acquisite dal re Filippo V di Borbone nel 1722, e da allora hanno attratto gli amanti
dell'arte con il suo splendore.
Per molto tempo, la versione de la Granja fu considerata una copia, mentre quella del
Prado fu attribuita erroneamente al pittore Domenichino.
Tuttavia, nel corso del XX secolo, si è riuscita a confermare con certezza la paternità del
talentoso pittore bolognese Guido Reni.

Non perdete l’occasione di visitare l’esposizione “Guido Reni” nel Museo del Prado di
Madrid. Avete tempo fino al 9 luglio del 2023 per dilettarvi con la genialità di questo
grande maestro.

Altre storie e viaggi ci attendono nei prossimi casi di Art detective.